Giudicare il Kebab sulla base del Döner Kebab della prima «kebabberia» che capita è un po’ come giudicare la pizza napoletana, nelle sue diverse varianti, in base a quella surgelata o l’hamburger in base all’esperienza fatta in un fast food.
Il Kebab come lo conosciamo noi grazie alla proliferazione, appunto, delle «kebabberie» che si sono diffuse un po’ ovunque è infatti un cibo standardizzato la cui qualità dipende essenzialmente da chi lo produce e dal guadagno che vuole trarvi.
Non casualmente la sua diffusione nell’Europa occidentale si deve agli immigrati turchi, soprattutto in Germania che l’hanno introdotto come alternativa ai classico cibo da fast food.
È quello il vero Kebab? Andiamo con ordine.

Le origini del Kebab

La parola Kebab sembrerebbe derivare dal termine arabo kabāb che vuol dire semplicemente «piccoli pezzi di carne arrostita» ed in effetti se si guarda alla enorme varietà di piatti simili diffusi nelle diverse culture culinarie l’unico elemento comune sembra individuabile nel tipo di cottura.
Non è quindi difficile ipotizzare che il Kebab affondi le sue origini negli albori della civiltà umana con la scoperta del fuoco e della possibilità di cuocere la carne mediante arrostimento.
Rispetto a tutti gli altri tipi di carne arrostita, tra i quali, per la varietà delle pietanze, è davvero difficile individuare parentele più o meno risalenti, il Kebab ha la caratteristica di essere composto di piccoli pezzi o ritagli di carne, spesso speziati o diversamente conditi, sufficientemente grassi dal tollerare l’arrostimento senza seccarsi eccessivamente, infilzati su di uno spiedo.
Il motivo di questa tecnica è eminentemente pratico perché in questo modo la carne cuoce molto più rapidamente e comporta un minor impiego di combustibile.
Se vi sono subito venuti in mente gli arrosticini abruzzesi non siete molto lontani.
Il contesto originario di questa pietanza è infatti intuitivamente pastorale: cibo da preparare rapidamente, in contesti naturali in cui vi è scarsità di legna come i pascoli o i tratturi, sacrificando i maschi delle greggi: agnelli e montoni, carni che oltretutto richiedono tempi relativamente brevi di frollatura.
Suggestivo, ma poco credibile, è invece che il piatto derivi dall’abitudine degli antichi guerrieri greci o persiani di cuocere, in occasionali bivacchi, piccoli pezzi di carne infilzati sulle loro spade.
Non si vede, infatti, perché rovinare il filo e la qualità delle lame da combattimento per una funzione che poteva essere tranquillamente assolta dagli spiedi di metallo o di legno.
Più che da un’unica pietanza diffusa per commistione quindi il Kebab sembra derivare da una famiglia di pietanze, la maggior parte delle quali indipendenti tra loro, scaturite da analoghe esigenze eminentemente pratiche e che hanno portato a risultati sostanzialmente identici senza necessariamente essere entrate in contatto tra loro.
Souvlaki greci, ćevapčići balcanici, khorovats armeni, pinchitos spagnoli, arrosticini abruzzesi e tutte quelle pietanze diffuse nel Mondo che si basano sulle medesime tecniche di cottura e che talvolta sono associate al Kebab (un po’ come si fa con la pizza napoletana) per sfruttarne la notorietà non sembrano quindi diverse versioni di un unico piatto, quanto preparazioni originali con molteplici punti in comune.
Non appare decisivo sotto questo aspetto neppure il riferimento ai diversi condimenti, visto che spezie come il cumino, il coriandolo, il cardamomo, la cannella, la noce moscata e i chiodi di garofano, verdure come la lattuga, le cipolle, i cetrioli (cui poi si aggiungeranno i pomodori), condimenti come l’olio extravergine d’oliva, l’olio di semi di sesamo, il succo di limone, lo yogurt, eventualmente arricchito con aglio e cetrioli come nello tzatziki greco, e la salsa thaini a base di sesamo, sono comuni a tutto il bacino del Mediterraneo sin dall’antichità.
Più simili al Kebab, anche se stabilire chi sia nato prima vista la comune influenza ottomana è praticamente impossibile, sono lo shawarma mediorientale e il gyros greco, entrambe tecniche di cottura della carne su di uno spiedo verticale.
Con questi presupposti è possibile raggiungere risultati in termini di gusto assai simili al classico Kebab semplicemente confezionando degli spiedini da cuocere alla brace o in forno con piccoli pezzi, o addirittura con fettine sottilissime, di carne, speziati e all’occorrenza marinati e poi conditi con le salse e gli abbinamenti tipici, appena enumerati, del classico Kebab.

Il Kebap turco

Come la pizza napoletana, e anche in questo caso la similitudine appare pertinente, il moderno Kebab, nella denominazione turca di Kebap, ha un padre o quantomeno qualcuno che ha raccolto una tradizione antecedente (probabilmente quella dello shawarma mediorientale), ne ha migliorato la tecnica e l’ha sfruttata commercialmente: Iskender Efendi, figlio di Mehmet, nel Kayhan Bazaar di Bursa.
In questa piccola bottega, alla metà del 1800, il cuoco turco mise a punto il döner, il girarrosto verticale che consentiva di cuocere in modo omogeneo, mantenendone intatti i succhi ed i grassi, le fettine di carne, per lo più ovina, che rappresentano la sostanza del Kebab.
Da allora si sono succedute quattro generazioni di Iskender che hanno tenuto viva la tradizione del Kebab originario e sono diventate un vero e proprio marchio commerciale ed il simbolo stesso di Bursa.

La diffusione in Germania in Europa e nel Mondo

A comprendere le potenzialità commerciali del Kebap a partire dalla folta comunità turca emigrata in Germania è stato un immigrato turco: Mahmut Aygun (o Mehmet Aygun) che in un piccolo negozio di Berlino ne propose, nei primi anni ’70 del 1900, la versione come cibo di strada e che di fatto è, commercialmente, il padre delle diverse botteghe che tra la fine del 1900 e gl’inizi del nuovo millennio si sono diffuse un po’ ovunque nel Mondo parallelamente, ma non solo, all’immigrazione nordafricana e mediorientale.
Le kebabberie, agevolate anche dall’uso di carni rispettose dei precetti coranici, rappresentano, di fatto, la più diffusa e popolare alternativa ai fast food di origine nordamericana (che dopo il boom degli anni ’80 sono decisamente in ribasso) e si devono ora confrontare con le nuove mode del cibo etnico rivolto sostanzialmente ad un pubblico giovanile: il sushi cino-giapponese ed il pokè hawaiano.

La cattiva fama del Kebab

È fuor di dubbio, almeno a leggere certi articoli della stampa gastronomica, che il Kebab non goda di buona fama, spesso accusato di essere composto di carne di cattiva qualità e realizzato con norme igieniche approssimative.
Si ha l’impressione che si voglia necessariamente generalizzare un pregiudizio un po’ per campanilismo, visto che il nostro Paese ha una scelta pressoché sterminata di piatti popolari e di strada a volte simili al Kebab o che ne occhieggiano la popolarità (a suo modo geniale il «Kepurp» napoletano fatto con il polpo) un po’ per la naturale propensione a giudicare male il cibo di strada ritenuto divertente, economico, ma di qualità mediamente scadente.
Come per tutti i piatti popolari il Kebab ha una sua storia, una sua tradizione e mille modi diversi di intepretarlo: la differenza, come al solito, la fanno la professionalità dei cuochi e la scelta delle materie prime.
Chissà come si dice in turco: quello che metti ce ritrovi?