È risaputo che lo «scapèce» è un modo di conservazione, e quindi indirettamente un condimento, a base di aceto nel quale vengono immerse le pietanze, soprattutto piccoli pesci o verdure come le zucchine o le melanzane, successivamente alla frittura.
Secondo il Vocabolario Treccani, che riprende la versione più diffusa, il termine sarebbe la trasposizione in lingua napoletana del termine spagnolo «escabeche» a sua volta derivante da una parola araba e avrebbe il significato di marinatura con aceto.
Sorprende, tuttavia, che un modo così elementare di conservazione sia di derivazione spagnola, sia pure con origini arabe, e quindi sia frutto di una scoperta relativamente recente.
Si è affacciata allora l’ipotesi, avvalorata da quel crogiuolo di ricette che si è diffuso con il nome «De re coquinaria» ed è comunemente attribuito ad Apicio, che il metodo sia assai più antico.
Nel De re coquinaria si legge infatti come modo per conservare i pesci fritti: «Eodem momento, quo friguntur et levantur, ab aceto calido perfunduntur» (Nel medesimo tempo in cui si friggono e si sollevano, vengono cosparsi con aceto caldo).
La tesi convince anche dal punto di vista fonetico: Ex Apicio (da Apicio) o Esca Apicii (cibo di Apicio) si avvicinano di molto al termine contemporaneo.
Meno credibile invece che anche le zucchine alla scapèce, celeberrima preparazione della cucina partenopea, derivino direttamente dal mitico buongustaio di Roma Antica e non siano invece un portato della cucina spagnola.
Le zucchine contemporanee, infatti, sono arrivate da noi con gli altri prodotti americani.
Poco male: è innocente vezzo comune quello di dare blasone alle ricette retrodatandole il più possibile, magari ai tempi dei Greci e dei Romani.